Era il maggio del 2016 quando per la prima volta dovetti fare sfoggio, come excusatio non petita, dell'appellativo "scrittore" .
Entravo nella hall dell'Hotel dei Congressi, all'EUR, trascinando il trolley nero da cui lei spuntava fiera e non nascondibile.
Venivo da due giorni in tour per le scuole di Roma nord, accompagnato dall'agente della mia casa editrice che quell'anno aveva fatto l'en-plein, facendo adottare il mio libro sull'Orlando Furioso urbi et orbi, e mi trasferivo da un hotel sulla Nomentana all'EUR, per proseguire l'indomani il tour nelle zone di Enea, a Pomezia.
Di tutti i pubblici auspicabili, per uno scrittore il più esigente e nel contempo il più gratificante è quello dei lettori giovani. Ho detto più volte che scrivere per i ragazzi comporta una serie di dolci responsabilità, nella scelta degli argomenti, nella pulizia della parola e dello stile, ma garantisce affetto e stima talora immeritati.
Quando vai in qualche scuola i docenti che ti hanno invitato vogliono fare bella figura con te (e non sanno quanto invece tu sia teso, per fare a tua volta bella figura con tutti quei lettori, che leggendo le tue pagine ti conoscono meglio di quanto tu conosca te stesso), e preparano grandi accoglienze, lavori di sintesi e rielaborazione dei tuoi libri che sono più belli del tuo libro stesso. Quell'anno la classe Seconda F dell'I.C. "Matteo Bandello" di Roma, in onore del protagonista del libro che ero andato a raccontare, mi ha omaggiato nientepopodimeno che di una Durlindana. Di legno, lunga poco meno di un metro (sessanta di lama più elsa e impugnatura), colorata a tinte metallizzate e istoriata, fronte e retro, con il nome suo e degli alunni.
"Bentornato", mi dice il concierge, riconoscendo l'autore che non per la prima volta amava soggiornare lì, o fingendo di riconoscerlo, dopo aver controllato sullo storico delle prenotazioni che non fosse la prima volta che calcavo i marmi di quella storica hall.
Durante il tragitto in taxi avevo perfezionato la battuta, che con il taxista non mi era riuscita benissimo: "Non sono un artista del circo: è un souvenir per mio figlio", gli avevo detto. E lui mi aveva guardato come si guarda uno accompagnato da una donna bellissima di cui tutti intuiscono il ruolo ma che egli spaccia come "mia cugina".
"Sono uno scrittore", ho perciò detto all'azzimatissimo addetto della reception. Il quale mi guardava con il sorriso sociale stampato in volto senza capire la pertinenza della mia excusatio.
"Ah", ha detto poi notando l'arnese che spuntava dalla cerniera superiore del trolley.
Peggio è stato salire sul Frecciarossa in abito di fresco lana e cravatta schermendomi cortesemente con gli altri passeggeri per collocare sulla rete portabagagli la mia valigia con relativo ammennicolo.
Da allora in poi quella spada di legno campeggia nel mio studio. "Non è un giocattolo!", ho dovuto scandire perentoriamente ai miei figli in età da avventure piratesche tra le mura di casa. Il più grande mi ha guardato con lo sguardo "da taxista" che sottintendeva "see, dottò: ce semo capiti".
Come un fil rouge questa spada spesso tra i piedi, da spostare sulla sedia a dondolo quando ho bisogno di aprire un'anta della libreria, da spostare dalla sedia a dondolo allo scaffale quando voglio leggere in tranquillità, da spostare dallo scaffale alla libreria e poi di nuovo da capo, è divenuta una compagnia e un pungolo.
"Le armi dei vinti", appena uscito per le Edizioni Giovane Holden, parla anche di lei. Di questa lama che appartenne a Ettore di Troia, a Orlando paladino di Carlo Magno, e che ancora oggi contiene in sé forza e mistero. Il simbolo in copertina sembra alludere a lei, ma non è una spada. Sembra una croce, ma non è una croce. Anche il romanzo sembra una caccia al tesoro letterario-archeologica, ma è molto di più.
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