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"Avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. 

Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Non porsi limiti di tempo"

don lorenzo milani

Non di solo Primo Levi vive la letteratura della Memoria

Da molti anni tengo su un giornale una rubrica settimanale di recensioni letterarie e da altrettanti molti anni sono nella giuria di uno dei più importanti premi letterari italiani.

Per questo, oltre che per la mia passione, casa mia è invasa di libri, spesso romanzi, perlopiù romanzi storici. Mi piace ripescarne qualcuno di quelli che in un modo o nell’altro parlano del dramma della persecuzione antiebraica, e offrirlo di nuovo alla lettura. Perché non di solo Primo Levi vive la Giornata della Memoria, né di sola Anna Frank. La letteratura ha prodotto pagine altrettanto struggenti se non, addirittura, stilisticamente migliori. Perché non basta raccontare un dramma per avere automaticamente un buon libro. Occorre saperne parlare bene, con stile. Scrivere male (dell’Olocausto come di qualsiasi altro argomento) significa rendere un cattivo servizio a ciò che si vuole far ricordare. Spettacolarizzane il dolore, impadronendosi ideologicamente della sofferenza, significa fare un cattivo servizio alla Storia e alla memoria, cioè al futuro.


Vorrei, allora, consigliare alcuni titoli tra quelli di recente, recentissima pubblicazione. Tranne due casi, non risaliamo più indietro del 2021. Riprendo e cito, con qualche aggiustamento, i miei pezzi già usciti, in questa specie di florilegio amaro su un dramma che strappò dalla terra sei milioni di vite. Perché leggerne e farne memoria faccia sbocciare, ancora, fiori nuovi di bene.


Frediano Sessi, Il bambino scomparso

Le bibliografie scolastiche sono ricche di titoli che si occupano della Shoah, così come accade passando in rassegna la produzione cinematografica dei registi contemporanei, o i calendari degli eventi collegati annualmente alla cosiddetta Giornata della Memoria, istituita nella data dal forte valore simbolico della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa. Il libro di Frediano Sessi, "Il bambino scomparso" (Marsilio 2022, pagg. 155, Euro 16,00) spiazza alcune di queste considerazioni. Auschwitz non è stato liberato trionfalmente dai russi, dice a un certo punto il narratore. Ed è lui la scoperta più inattesa, perché si tratta di un testimone che per decenni ha cercato e preteso di rimanere nell'ombra. C'è un merchandising attorno all'Olocausto, alimentato anche dall'orgia di testimonianze, che rende ancora più cristallina la testimonianza a cui Sessi dà voce in questo libro prezioso. "Birkenau - dice ad un certo punto il protagonista, che rimette piede nel campo a molti anni di distanza - era attrezzato per accogliere una folla immensa e gli organizzatori avevano messo molte bancarelle, tanto che il vecchio Lager assomigliava a un mercato. Ai miei occhi quel luogo così tremendo sembrava un luna park. Mi chiesi [...] come sarebbe stata la memoria in futuro? Birkenau sarebbe diventato una meta turistica tra Cracovia e Varsavia?" (pagg. 62-63). Sì, Luigino Ferri: è diventato questo. Perciò questo libro di Sessi, che è il curatore dell'edizione italiana del "Diario" di Anna Frank, tra le altre cose, è necessario. Il protagonista, Luigi Fritsch, poi Luigi Ferri per occultare in parte l'origine ebraica nel cognome, è quel "Luigino" che ha attraversato Auschwitz come una leggenda, quasi una fiabesca se non fosse per l'abbrutimento del luogo. Cattolico ariano, fu portato per suo volere insieme alla nonna alla Risiera di San Sabba e poi deportato nel lager. Non per eroismo, dirà lui. Semplicemente per paura di rimanere da solo a Trieste e per attaccamento affettuoso ma anche utilitaristico a nonna Rosa. Poi nel girone infernale delle baracche trova il suo Virgilio in un medico ebreo, Otto Wolken, che lo nasconde sottraendolo alle camere a gas qui venivano destinati automaticamente i bambini: inutili ai fini del campo perché troppo gracili per lavorare. Di lui si sapeva qualcosa e si sono poi perse le tracce negli anni per sua stessa espressa volontà di scomparire "Oggi proliferano gli scritti di memoria: assistiamo alla pubblicazione di decine di racconti, spesso redatti da giornalisti o storici, in cui la voce dell'ex deportato o dell'ex deportata ammonisce i lettori: mai più deve accadere quello che è successo a noi. Come se chi ha vissuto un'esperienza estrema, incisa come il numero di matricola sulla sua carne, con il passare del tempo si fosse trasformato in oracolo, perdendo la consistenza di persona reale. Sacro ai media e al mercato, è atteso come una star da un pubblico silente e in lacrime, unico scrigno di verità", scrive Sessi a pag. 107, nella sua ampia riflessione che completa il libro. Il racconto di Luigi, in una prima persona fittizia poiché creato attraverso la collazione di fonti, oltre che naturalmente grazie all'incontro diretto dell'autore con Ferri, la cui identità è custodita e protetta, il racconto vero e proprio, dicevo, occupa solo le prime 93 pagine. Il resto sono fonti e riflessioni altrettanto coraggiose.

Un libro che deve essere letto da tutti quelli, insegnanti e politici in primissima fila, che bamboleggiano retoricamente intorno alla Shoah, spettacolarizzane il dolore, impadronendosi ideologicamente della sofferenza, facendo un cattivo servizio alla Storia e alla memoria, cioè al futuro.


Giovanni Grasso, Il caso Kaufmann

Si deve al portavoce del presidente Mattarella, Giovanni Grasso, il bel romanzo "Il caso Kaufmann" (Rizzoli, 2019, pp. 383). Ci trasporta a Norimberga nel 1933, raccontando la storia di Lehmann Kaufmann, agiato commerciante ebreo sessantenne, cui l'amico Kurt chiede di prendersi cura della figlia ventenne Irene. La sua bellezza e il suo coraggio la rendono una presenza disturbante nella comunità di Norimberga, attirano su di lei l'attenzione del Partito Nazista e su Leo Kaufmann le accuse che potete ben intendere. Quarant'anni di differenza, lui ebreo lei ariana nella città che fu l'incubatrice delle leggi razziali: l'incubo di una giustizia stolta e persecutoria è dietro l'angolo, e colpisce inesorabile. È un libro molto bello questo di Grasso, che usa le parole con la stessa pazienza prudente con la quale ha curato e curerà la comunicazione del Quirinale: le parole hanno un peso, e quelle usate male ancor di più. Grasso sa usarle bene in queste pagine, mettendosi a servizio dei suoi personaggi con pudore e prudenza, nascosto dietro le loro storie senza mai emergere in primo piano con il protagonismo dei boriosi o dei dilettanti. Ci restituisce uno spaccato diverso da quello di molte pellicole sui campi di sterminio, più vicino a "Concorrenza sleale" di Scola che non a "Schindler's list" o simili. La cronaca talora riporta d'attualità anche quei libri che pure non sono di recente pubblicazione: molto ciarpame scompare, i capolavori rimangono immortali, e tanta buona letteratura, come questi due romanzi, ridiventa contemporanea per una ricorrenza, o per una elezione.


Martina Merletti, Ciò che nel silenzio non tace

L’opera prima di questa giovane scrittrice piemontese racconta la storia vera di suor Giuseppina De Muro, direttrice della sezione femminile del carcere torinese Le Nuove, dei suoi sforzi per lenire le sofferenze delle recluse, del gesto materno con cui, nell'estate del '44, addormenta il neonato di una prigioniera ebrea e lo fa uscire, di notte, nascosto in un fagotto di lenzuola sporche nel carrello della biancheria, novello Mosè salvato in una cesta di panni. Di questo bambino si perdono subito le tracce, a pagina 5, mentre ci si immerge nella vita anonima, contadina e buona, di un paese della campagna e dei suoi campi di girasole. La Storia si fa minuscola, dialettale, e pudica. E poi riaffiora nelle ricerche della giovane Aila Trabotti, che dalla città viene in Vespa a trovare l'ormai vecchia suor Emma, alla ricerca di notizie su quel bambino. Da qui in poi il romanzo procede con una prosa emozionante. Ho letto tantissimo nella mia vita, per diletto, per studio, per professione. Ho ammirato spesso, ho criticato altrettanto, mi sono emozionato poche volte. Qui sì. Quando leggo un autore esordiente, più che lo stupore per dove ha trovato la storia, mi interessa l'incanto di dove abbia trovato la voce, quel timbro così particolare della prosa che, appena sbocciata, pare già matura. Così è per le pagina di Martina Merletti, per la gestione sospesa dell'andirivieni di analessi e prolessi che fa del romanzo un puzzle in continua costruzione, con agnitiones credute plausibili e poi ritardate, con quella protasi iniziale che per lunghe pagine sembra non c'entrare nulla con la vita sonnacchiosa di un bar piemontese, e poi si riaffaccia, a pezzettini, per ricomporsi in unità alla fine. Senza strombazzamenti, con quella cortesia tutta piemontese, che rifugge i coup de théâtre e sovente preferisce tacere piuttosto che urlare. "Ciò che nel silenzio non tace" è un romanzo importante per la storia che racconta e per il modo in cui lo fa. Trovo, nello stile rispettoso e quasi trattenuto, un non so che di manzoniano. Mi stupisce che suor Giuseppina, nella relazione delle sue attività al carcere, battuta a macchina nel '46 per il cardinale Fossati e conservata oggi all'Archivio Arcivescovile diocesano, non faccia mai menzione di quello e degli altri bambini che verosimilmente ha salvato. Avrebbe potuto ben farne sfoggio, eppure c'è un bene che evangelicamente va tenuto segreto. Immagino anche per rispetto delle madri e dei padri che quei bambini avranno poi custodito (e il dramma di una verità che, pur nobile, va taciuta, emerge a pag. 248). Il coraggio del silenzio, la custodia dei destini degli altri, che non appartengono ai salvatori, il pudore di fermarsi un attimo prima, di essere piuttosto reticenti che invadenti, è una lezione manzoniana che fa di questo romanzo d'esordio un romanzo bellissimo.


Paolo Colagrande, Salvarsi a vanvera

"Salvarsi a vanvera" di Paolo Colagrande (Einaudi, pagg. 376, Euro 20,00) è uscito nel marzo 2022, a guerra esplosa e vicina a noi. Almeno quella in Ucraina, perché il mondo è pieno di guerre dimenticate e questa invece continua a fare molta notizia e dare molto dolore: una storia della fine della Seconda Guerra Mondiale mentre i giornali ne ventilavano una Terza. Siamo infatti nell'autunno del 1943, in una zona imprecisata della provincia padana sotto l'occupazione nazista, mentre gli Alleati risalivano lo stivale e Mussolini si trastullava a Salò. I tedeschi e i repubblichini si trastullavano nel frattempo con la popolazione locale, esigendo, requisendo, imponendo. In mezzo ci si trova Mestolari Aride, titolare di un emporio di generi alimentari originariamente destinati alla popolazione tramite tessera annonaria ma poi saccheggiato puntualmente dalle truppe di occupazione sotto il comando del maggiore Aginolf Dietbrand von Appensteiner. È tutta la famiglia Mestolari (moglie, due figlie gemelle e il piccolo trovatello Cali, di quattro anni), oltre alle maestranze dell'emporio, a poterne pagare teoricamente dazio. Perché il Mestolari è ebreo, si chiamava Mozenic Aràd e solo con un magheggio all'anagrafe era riuscito a occultare la sua origine dietro una nuova identità. Ebrei sono anche i suoi lavoranti, e il rischio della deportazione è imminente. Impostura per impostura, il Mozenic Mestolari affronta gli assalti della sorte con una faccia tosta leggendaria: appioppa ai tedeschi venuti per requisire il magazzino "caffè di ghiande, dei fagioli che non van bene neanche per la tombola e una cinquantina di tavolette di cioccolata di castagne dura come mattonelle di gres; e alla fine, come devoto omaggio, anche un carrello di Ovocrema Astrid vecchia di sette anni, che era più prudente buttar via, insieme a delle scatole di caviale di colla di pesce e cicoria, marca Babilonia, tinta per capelli Ordzak tonalità nero aubergine e gran crema de luxe Florence per calzature". E loro ne paiono persino soddisfatti. E poi arriva il colpo di genio, quando si inventa l'esistenza di una miniera di "carbone giovane" la cui estrazione sarebbe naturalmente utilissima per le forze di occupazione ma che può essere condotta solo da maestranze del luogo, le uniche a non temere la Salamandra Ignifera Gigante Cinese che si aggira nella miniera e prende di mira tutti e solo i forestieri. Per questo Aràd Aride improvvisa una squadra di lavoranti, ingegneri, geologi, scavatori, tecnici minerari tutti e solo rigorosamente autoctoni e altrettanto rigorosamente ebrei per far durare quel bluff il più a lungo possibile, fino a quando gli Alleati non arriveranno anche lì. C'è chi ha voluto vederci "La vita è bella", per l'atmosfera giocosa e quasi irridente; chi ha rintracciato "Train de vie", il bellissimo di Radu Mihaileanu o forse più ancora quell'altro suo capolavoro, "Il concerto", dove una schiera di musicisti ebrei impostori si fa passare nientemeno che per l'orchestra del Bol'šoj. C'è anche un po' di "Schindler's list", a ben vedere, ma meno drammatico e più sconclusionato. La voce narrante sembra vaga, imprecisa, quasi inadatta al dramma: ha le cadenze lente e rilassate della Bassa Padana, con quell'andirivieni colloquiale e musicale di espressioni gergali e di rassegnazione pacata: "non so se l'ho già detto", ripete spesso. Oppure: "e non diciamo nient'altro, per adesso." È scritto a vanvera, come se lo stile fosse un correlativo oggettivo del contenuto, di quel modo di agire casuale, improvvisato, fatalista ma istintivamente funzionale, con cui si muove il protagonista: a vanvera, appunto. Chi racconta è una delle due gemelle, e pare che lo faccia in presa diretta: per questo le si concede il beneficio della vista corta dei bambini, che non percepiscono la grandezza del dramma oltre il loro piccolo mondo. Che le coordinate siano quelle che ho detto sopra non c'è dubbio, eppure le parole "nazisti", "guerra", "fascisti", "duce", "Mussolini" non compaiono mai, come in una realtà trasfigurata o sfuggente. Poi si capisce che lo racconta da anziana, riattingendo ai suoi ricordi di bambina. E allora le si perdona la vista miope di chi ormai vede male le cose lontane. O forse ha imparato a relativizzarle, a non inseguire a tutti i costi un senso ma a custodire il senso dentro il nido dei rapporti famigliari, e per questo si è salvata. A vanvera.


Marina Morpurgo, Il passo falso

La storia della fuga in Svizzera di un giovane ragazzo ebreo e delle contemporanee scorrerie di un suo coetaneo partigiano attraverso i sentieri sul ramo manzoniano del lago di Como, sulle rive dell'Adda a Colico e poi su per la Val Masino, fino alla Capanna Omio: una storia piccola, se vogliamo, e per certi versi non originale. Di meritevole c’è però il tono con cui Marina Morpurgo in questo suo "Il passo falso" (Astoria, 2022, 240 pagg., Euro 17,00) offre al lettore questa storia: la racconta con una voce efficacissima. È un impasto di franchezza e cultura, di ironia pungente e di malinconica tristezza, sempre in filigrana, sempre un passo indietro, sempre in levare. La storia prende le mosse dai comportamenti bizzosi dello stimato professor Emilio Rastelli, che già pediatra di fama è ora la tortura della caposala e delle infermiere dell'ambulatorio dializzati, oltre che di sua moglie, professoressa di Lettere in pensione, di vent'anni più giovane di lui, che ormai mal tollera l'alternanza di sarcastica lucidità e di paurosi vaneggiamenti nella quale si perdono le giornate del marito. Che, quando riesce, prende le chiavi dell'auto e fugge verso Colico, per essere ritrovato dalla polizia stradale mentre gira come un criceto in seconda marcia lungo la grande rotatoria del Pian di Spagna: cosa cerca da quelle parti? Cosa lo spaventa? Chi è davvero Emilio Rastelli? Perché chiama "Irma" la caposala Anna? Potrei dire che la soluzione finale è ovvia, ma il modo in cui viene raccontata è delicato ed efficacissimo. Così come l'incipit: le prime quattro pagine coll'anziano che finge un ictus perché la nuova infermiera, "quella brutta culona" dice lui, l'ha chiamato con condiscendenza che voleva essere affettuosa "nonno", sono la cartina di tornasole del registro che si mantiene così per tutte le duecento pagine: leggero senza mai essere banale, drammatico senza mai diventare patetico, sorridente senza smettere di essere serio.

Andrea Molesini, Il rogo della Repubblica

Che i comunisti mangiassero i bambini è risaputo. Così come che gli Ebrei uccidessero i bambini cristiani per cavarne il sangue e impastare con esso le focaccine da consumare durante la Pasqua. Lo sanno tutti. Tutti quelli che non sanno che se c'è un popolo che ha orrore del sangue dal punto di vista alimentare è esattamente il popolo semita, e tutti quelli che non si chiedono la ragione, e nemmeno il modo: si ubriacano delle accuse che gli fanno più comodo, e le assumono tal quali. Sono gli stessi bambini del romanzo di Andrea Molesini, "Il rogo della Repubblica" (Sellerio 2021, pp. 334, Euro 15) a farsi le domande giuste, quelle che gli adulti non riescono a formulare, mentre ammirano un quadro del Giambellino: "La Madonna è ebrea?" "Non bestemmiare! La Vergine è santa!", lo rimprovera la madre segnandosi la croce su fronte labbra e petto con il pollice. "Ma perché un'ebrea non può anche essere santa?", riprende il bambino. "Certo che è ebrea [...]. Ebreo è anche il bambino tutto fasciato, Gesù; e quel signore sullo sfondo che ci fissa sbigottito è San Giuseppe, ebreo anche lui..." "Allora perché Veronica dice che gli Ebrei sono cattivi se anche la Madonna Gesù e San Giuseppe sono ebrei?" "Perché hanno ucciso Gesù", sbotta la serva squadrandolo con un viso severo. "Ma gli ebrei sono tanti... Come fanno ad aver tutti ucciso Gesù?"

È questa voce innocente che parla in questo romanzo bellissimo ma straziante, dove il Male ignorante si mischia con la Ragion di Stato, quella sì molto intelligente, e produce un abominio umano e legislativo. Sembra di aver già sentito un riassunto simile: è la "Storia della Colonna Infame" di Manzoni. E il romanzo di Molesini è per molti versi il suo omologo, ambientato a Venezia nel 1480, con la stessa tensione di un legal thriller e il medesimo sconcerto di un dramma esistenziale, non solo procedurale. Nel 1480, in un piccolo paese del trevigiano, sparisce un bambino. L'archisinagogo Servadio e altri due ebrei vengono accusati di averlo ucciso per impastare col suo sangue le focaccine pasquali. Torturati e condannati a morte, fanno ricorso e il processo si trasferisce di fronte al Senato di Venezia. Che siano innocenti lo capiscono tutti. Che debbano essere assolti non ne sono tutti convinti. Perché significherebbe condannare per falsa testimonianza almeno cinquecento tra gli abitanti del paesino, podestà compreso; perché i francescani, soprattutto Bernardino da Feltre - scellerato e incendiario predicatore (faccio notare che per la Chiesa costui è ancora "beato") - aizza le folle; perché cane non mangia cane. L'esito non unanime della votazione con cui il Senato li manda comunque a morte è indice di una situazione non lineare. In mezzo a queste manovre politiche si muove Boris da Candia, "esploratore" per conto della Repubblica, indagatore per curiosità personale, un uomo, come tutti i saggi, che ha più domande che risposte. Una figura di cui mi sono subito innamorato: una specie di Christopher Marlowe trasportato dai moli londinesi alle calli veneziane: umanista, bibliofilo, traduttore di Tacito, eppure avventuriero, omicida efficacissimo, cultore del buon cibo e delle belle donne, frequentatore di osterie e bordelli, quello di Sora Bigotta il più sopraffino, una sorta di James Bond elegante e letale, al servizio segreto della Repubblica ma non così ottuso da non farsi delle domande. I dialoghi tra Boris e due degli ebrei imprigionati a Venezia, il Servadio e soprattutto Giacobbe Barbato, sono le pagine più struggenti del romanzo. I sogni agitati che lo tormentano talora sono sogni di navigazione, di burrasche, di naufragi, come se l'acqua degli incubi potesse spegnere il fuoco di quel rogo che inevitabilmente sa verrà acceso in piazza per bruciare i condannati. Pare ovvio che un veneziano popoli di mare i suoi sogni. Pare meno scontato quando in questi stessi sogni vi si legge in filigrana il ventiseiesimo dell'Inferno, e allora Boris diventa un Ulisse ugualmente fiero e mai domo, come dirà anche Tennyson. So di qualcuno che ha faticato a terminare la lettura del romanzo, per uno stile corrusco o forse per quella sensazione di malvagità stolta e inesorabile che si infila sotto la pelle leggendo di questo processo. "Questa notte un uomo mi ha ucciso con la sua bontà", confessa ad un certo punto Boris. E questa bontà non si cancella con un rogo.


Lascio per ultimi, dopo questo romanzo che per certi versi si distacca dai fatti del Novecento (anticipandoli, purtroppo), due libri tra quelli che mi capita di regalare più spesso: La variante di Lüneburg, di Paolo Maurensig (Adelphi) e Fatherland, di Robert Harris. Sono talmente belli e ormai talmente famosi che non credo abbiano bisogno di presentazioni.

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