IN MORTE DI SIR KEN ROBINSON
Quanti modi diversi ci sono per usare un fermaglio per la carta?
La gente normale ne trova una decina, al massimo. Fermare i fogli, ovviamente. Piegarlo a cuore come facevano le ragazzine quando io ero piccolo. Collegarne tanti in fila per fare un braccialetto o una collana. Usarne la punta per estrarre la SIM dagli smartphone: e ho presto finito. Chi utilizza un pensiero divergente non ha limiti, ne trova cento, duecento, incominciando a chiedersi, per esempio, quanto è grande questo fermaglio? Può essere alto come un essere umano? Di che materiale è fatto? Può essere di spugna? O di marzapane? Insomma, non è detto che debba per forza essere una graffetta di metallo come normalmente lo intenderemmo.
Questo test è raccontato nel libro Breakpoint and Beyond del 1992, somministrato a 1500 persone e indicizzato in base a una scala di risultati capace di far emergere quello che noi definiremmo un “genio” del pensiero divergente. Quante delle persone testate hanno superato questa soglia? Il campione era costituito da bambini della scuola materna: il 98% di loro ha raggiunto il massimo dei risultati. Poiché era uno studio a lungo termine, il campione è stato ritestato a distanza di qualche anno, tra gli 8 e i 10 anni, e poi una terza volta tra i 13 e i 15 anni. I risultati emersi sono stati drammaticamente anticiclici. Nel senso che nella nostra idea di sviluppo della conoscenza, di solito inizi che non sei tanto bravo e poi col passare del tempo migliori. Invece in questo caso è successo esattamente il contrario. Lo studio dimostra perciò che tutti abbiano questa capacità innata, che col tempo si deteriora. Ai 1500 bambini del campione sono successe nell’arco del loro sviluppo molte cose: avranno cambiato casa, qualcuno. Qualcun altro sarà incorso in qualche dramma familiare, qualcun altro ancora avrà magari dovuto attraversare un periodo di malattia, ma la cosa principale – purtroppo – è che sono andati a scuola.
E a scuola è stato loro detto che c’è una e una risposta sola, che si trova alla fine del libro, che va letto dalla A alla Z, che però non possono consultare mentre svolgono i loro compiti, e non devono parlarsi tra loro, perché copiare e collaborare significa imbrogliare.
Invece fuori dalla scuola la capacità di lavorare in team e il riferimento puntuale e documentato alle fonti sono due delle abilità fondamentali nel mondo del lavoro.
Questo aneddoto è raccontato da sir Ken Robinson nel celeberrimo contributo dal titolo Cambiare i paradigmi dell’educazione, e non c’è corso di formazione che io tenga nel quale non l’abbia usato e non lo usi ancora.
Sir Ken Robinson è morto l’altroieri, di cancro. Come tutti i profeti le sue provocazioni non sono finora riuscite a fare sistema, né questo avverrà fintanto che a problemi immensi, di portata generazionale, si risponderà con soluzioni falegnameristiche.
Di fronte alla probabile impossibilità di tornare a fare scuola come nell’era pre-Covid chi ha la responsabilità di gestire e indirizzare il mondo della scuola non ha fatto che cercare soluzioni placebo per darne un surrogato il meno indigesto possibile. Allargare gli spazi, o restringere i banchi (se rotellemuniti ancor meglio), o accorciare il tempo della lezione, o suddividere il gruppo classe, o alternarne la presenza metà in un’aula metà in un’altra. Soprattutto dotare gli studenti di pc. Guai a non averne uno. Spazi, oggetti, strumenti, “cose”, per tenere gli alunni a scuola, isolati come singole monadi, orientati verso il pulpito del docente depositario del sapere. Come se non esistesse alcun altro modo, laterale, divergente, di imparare.
Siccome quando qualcuno muore di solito si organizzano celebrazioni e retrospettive in suo onore, mi piacerebbe che come hanno fatto per Franca Valeri, i media dessero voce alle provocazioni geniali di sir Ken Robinson, perché diventino anch’esse patrimonio condiviso di tutti e semi per la scuola del futuro. Non i bancoscontri.
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