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"Avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. 

Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Non porsi limiti di tempo"

don lorenzo milani

LABOR OMNIA VINCIT IMPROBUS

In un’epoca di esterofilia e lingue citate un po’ a vanvera, i trabocchetti dei cosiddetti “falsi amici” si sprecano, così se ormai nessuno scambia più il burro spagnolo per il nostro condimento, o l’horse inglese per l’orso marsicano, capita, e non solo nelle classi del ginnasio, che si citi il motto della Prima Georgica virgiliana del “labor omnia vincit improbus” traducendolo per semplice assonanza come “il lavoro indefesso vince ogni ostacolo” (“indefesso” è hapax mio, che amo talora usare termini desueti). Perché il lavoro è fatica (questo il significa esatto del latino "labor”), e sudore, lacrime e sangue, e calli, e turni, e – alla fine – il meritato guadagno. Sono cresciuto in una Milano e in una Brianza che ha sempre fatto del lavoro il pilastro portante della realizzazione umana e dinastico-familiare, traducendo nei modi terreni i dettami di Max Weber, quasi che il successo nel lavoro sia – oggi come nell’etica protestante – salvacondotto sicuro per la predestinazione salvifica. E allora lavora, fatica, fai tardi alla sera, rinuncia alla famiglia per la carriera, rinuncia persino ai tuoi ideali per i dané, che per i valori morali c’è sempre tempo: sono altri valori quelli che contano, non so se mi spiego: lavoro-guadagno-pago-pretendo. "Si lavora e si fatica" per i soldi e per la rima conseguente. Per quella e per il fatturato. Tutto questo sta andando in crisi, se già non è andato, in questi mesi di cosiddetto “smart working”, per chi un lavoro da svolgere ancora ce l’ha. Che poi, in inglese, “smart” vorrebbe dire “intelligente”, “furbo”, non semplicemente “domestico”. Ma noi italiani siamo esterofili, e ci piace chiamare “lockdown” quello che dovrebbe essere “state chiusi in casa perché sennò siamo nella merda fino al collo”. E abbiamo imparato a capire che nemmeno la Cassa Integrazione, l’assicurazione che il nostro salario non verrà decurtato, la conservazione del posto fisso di checcozaloniana memoria, la surroga delle “call” (perché chiamarle “videorotturediscatole” non è cool) ci bastano. Che il lavoro dà un senso a quello che siamo non solo per il tempo che ci occupa o per i soldi che ci fa guadagnare.

“Cosa fai nella vita?”, ti chiedono nei nuovi incontri. E tu non rispondi “il papà”, o “l’appassionato di montagna” o altro: rispondi e ti definisci in base al lavoro che fai.

Per questo i bambini, quando giocano “ai grandi”, fingono di lavorare.


Per anni ho dovuto spiegare a mio figlio che “vado a scuola” era per me un lavoro, considerando che anche lui ci andava, a scuola. Per anni ho dovuto giustificarmi con mia moglie che, come dice Conrad che è scrittore di molto più degno di me, “quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando”. Da tempo devo difendermi dai lazzi di un’amica giornalista che mi accusa sempre di essere un fannullone.


Le ho sempre risposto confucianamente: “scegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua", ma mi rendo conto adesso che tutto ciò risulta risibile. Magari si potesse scegliere, oggi, un lavoro. È già tanto riuscire a conservarlo, purtroppo. E non c’è sussidio che basti a colmare questo vuoto di dignità che l’assenza di un lavoro porta nel cuore dei molti che questa crisi lascerà a piedi.


Questi mesi di chiusure e fatiche lasceranno profonde tracce nella riorganizzazione non solo del mercato del lavoro ma delle sue stesse modalità e, credo, del suo stesso significato. C’è una liturgia mattutina del vestirsi, del viaggiare, dello spostarsi per lavorare e di rincasare dopo, svestendosi degli abiti feriali, che lo smartworking ha annullato, in una continua reperibilità, e la successione di giovedì, venerdì, ugualedì ha vanificato in nuove forme di alienazione peggiori di quelle della catena di montaggio tanto criticata da Marx. Verrebbe quasi voglia di essere neoluddisti e spaccare laptop e webcam, e dire che non c’è hardware che tenga senza il software, e il software siamo noi, perdio: le persone.


Sento e vedo amici spegnersi per la mancanza di quel senso che il lavoro dà alle persone. Vorrei dire loro che non siamo (solo) quello che facciamo, ma mi accorgo che è una prospettiva troppo naïf quando le giornate passano con le mani in mano, a fare perlopiù le balie dei figli.


Mi piacerebbe che chi ha la responsabilità della res publica non dimenticasse che il lavoro ne è elemento costitutivo, poiché dopo una Guerra la nostra nazione è stata (ri)fondata sul lavoro. Non sui sussidi.


Un lavoro si ama, si cerca, si trova, si crea, si conserva, si merita, si cambia, si dona.



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