Il tuo nome che compare in testa alla copertina di ogni libro è un tributo all'ego, al tempo speso nelle ricerche, nelle letture, nella scrittura, ma sarebbe riduttivo considerarti l'unico autore di quel libro.
Hai avuto l'idea, hai scritto il testo, l'hai rimasticato e vissuto, correggendo le righe dello scritto e le rughe del tuo viso, in un continuo dialogo tra vita e arte. Ma non ci sei solo tu nei tuoi libri.
Ci sono le persone che li hanno letti a video, magari a spezzoni, quelli che gli mandavi tu mentre li scrivevi, per chiedere un parere, per far battere un cuore. C'è chi l'ha letto stampato su fogli A4, e ti ha dato il muto via libera all'invio alla casa editrice. E poi muori.
Quando pigi "invio" e mandi le bozze, ti spogli, ti espropri, sai di metterti in altre mani. Speri che capiranno quello che hai voluto dire, speri di averlo saputo scrivere bene, speri che qualche ingenuità venga accettata con bonomia, e che qualche passaggio che tu consideri geniale susciti lo stesso brivido nell'editor che entrerà dentro il tuo scritto, e dentro di te.
Ogni libro è un'opera corale, e forse tu che l'hai scritto non ne sei nemmeno il direttore. Arriva l'ufficio marketing, che suggerisce un posizionamento particolare, e una tempistica astuta per l'uscita, e i grafici, che devono riuscire nell'artistico compito di disegnare una copertina che non sia solo esornativa, che non sia nemmeno troppo rivelatrice, che non sia scontata, che non sia pulp, che non sia didascalica: sei bravo a consigliare loro quello che non vorresti fosse, ma poi ti affidi. E quando ti mandano il bozzetto di copertina è come vederti allo specchio di improvviso, e capire di più il tuo libro, grazie allo sguardo degli altri.
Così è per la frase di quarta. A ben vedere tu ne avresti suggerita una diversa, ma quando l'editor sceglie quella che poi verrà stampata, tu sai che ha visto giusto.
Esce in questi giorni con Giovane Holden Le armi dei vinti, il mio nuovo romanzo, non il mio "ultimo", nemmeno la mia ultima "fatica". Le sue pagine raccontano la storia intrecciata di tre "vinti", che attraverso la sconfitta sono divenuti eroi. Lo diresti un romanzo storico, lo diresti un romanzo d'avventura alla Indiana Jones (perché no?), ma anche un giallo letterario sullo stile del Codice del quattro di Ian Caldwell e Dustin Thomason sull'Hypnerotomachia Poliphili, o del Circolo Dante di Matthew Pearl, o dei libri di Matilde Asensi, o di Dan Brown. O di Clive Cussler, anche.
Detto così sembra un best-seller erudito da ombrellone, e chissà che non lo diventi (un best-seller, dico).
Sulla sua copertina campeggia un simbolo che potrebbe essere una croce, ma non lo è. Che potrebbe essere una spada, ma non lo è. Che lascia intravedere un manoscritto, perché il suo furto mette in moto gli ingranaggi di una vicenda che non è solo una caccia al tesoro.
Lo capisci quando, di tutte le parole che hai scritto, il tuo editor sceglie la frase per la quarta di copertina, e ci vede dentro la ricerca drammatica di qualcosa in cui credere, che renda degni anzitutto di sé.
La frase che troverete girando il libro è questa:
"Io non ho fede, il mio dio è la terra, e il vento e il fuoco. Non credo a dèi scesi dal cielo, ma se voi credete, credete in quello che le vostre spade contengono, e credete in voi: nessuna spada ha mai reso un uomo un eroe, ma ho conosciuto uomini che hanno reso immortale il nome della spada che indossavano. Siate degni di queste lame, e loro saranno degne di voi”.
La storia non ve la svelo: dopo chi l'ha scritto, chi l'ha corretto, chi ha suggerito, chi ha impaginato, chi l'ha disegnato, chi l'ha stampato e commercializzato, l'ultimo autore che completa il libro siete voi.
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