Il mio papà è un uomo pratico: ha lavorato in fabbrica, facendo un sacco di straordinari per permettere che suo figlio frequentasse l’università e diventasse quello che, tanto o poco che sia, oggi è. E da pensionato lavora la terra con passione, orgoglio e soddisfazione. Fa il nonno quasi a tempo pieno, avviando i nipoti alle astuzie delle arti georgiche, che necessitano vestiti pratici, comodi e resistenti.
L’ultima volta che ha indossato la cravatta è stata per la cresima di suo nipote, perché il brianzolo è ligio al comandamento che chiede di santificare le feste, e la cravatta è l’orpello “della festa”.
Il figlio in abito Brioni sorride sotto la mascherina dell’impaccio del papà incravattato tanto quanto il padre sorride quando io cerco di aiutarlo maldestramente a vangare il terreno.
Ieri ho portato mio papà a fare il vaccino antiCovid. Lo attendo in auto e lo vedo salire con il pullover e la cravatta: “Così è un traffico, papà: te lo fanno sulla spalla, non sull’avambraccio, devi togliere tutto. Avresti potuto vestirti più comodo”, gli dico.
“Mi sono vestito della festa”, mi risponde. Capisco che in parte è per non farmi fare brutte figure con il medico che lo vaccinerà e che è un mio amico carissimo, in parte per il retaggio ancestrale di una certa cultura semplice e contadina per cui “dal medico si va vestiti bene”, in parte perché davvero per lui questo appuntamento è una festa.
Mentre guido silenzioso lui parla, a ruota libera, di cose che non c’entrano col Covid: capisco che è emozionato per questa vaccinazione, che accoglie con gratitudine come un dono, una boccata d’aria fresca, una garanzia di futuro, una festa.
Al quinto “grazie” in cui si profonde in ambulatorio anche il medico se ne rende conto e mi dice: “Sa quanti anziani vedo, emozionati per questa cosa?”
Una specie di festa, che merita la cravatta, anche se poi è scomodo prepararsi per l’iniezione.
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