Chi mi conosce bene sa che io uso solo agende Moleskine nere a copertina rigida da 16 mesi, che “scavalcano” l’anno solare. Perché per chi lavora nel mondo della scuola, l’anno nuovo inizia il 1° settembre. E si chiude – esami e incombenze varie a parte – domani.
Ecco perché oggi in famiglia è tutto un rincorrere a chiedermi idee. Si inizia con la captatio benevolentiae “tu che sei bravo con le parole” (apprezzo la preposizione “con” che dice complemento di mezzo, e non “a parole”, che sarebbe complemento di limitazione), si prosegue con l’excsusatio non petita “anche se so che non ami queste cose”, e si insinua la richiesta obliqua: “non è che per caso mi aiuteresti…”.
“Per caso” a fare che cosa?
“Non è che per caso mi aiuteresti a scrivere un pensiero per l’ultimo giorno di scuola? Che dobbiamo condividerlo nelle chat di classe”.
“Perché il plurale?” (E sono stato persin gentile, che io quando sento la parola "chat" mi girano!).
E allora capisco che c’è una Deep School pervicace (e talora pericolosa) come il deep web, che la DAD non ha fatto altro che ingigantire a dismisura: c’è la chat della classe dell’asilo, c’è la chat della classe della Primaria, entrambe ancipiti, una dei bambini e una dei genitori. Quando va bene. Perché in quelle degli adulti di norma ci sono anche le sottochat, quelle dei simpatici, quelle riservate, di cui grazie al cielo noi non facciamo parte. E poi c’è quella dei colleghi. Non so se anche in questo caso esistano delle sottocorrenti: ritengo di sì ma poco me ne cale.
Come un aforista da Baci Perugina lo scrittore si ritrova perciò a soddisfare le richieste familiari di frasi di congedo ad effetto, che stillino gratitudine e mellifluo rimpianto, poiché domani, lunedì 8 giugno 2020, è l’ultimo giorno di scuola di quest’anno balordissimo.
Per molti anni ho trascorso il pomeriggio dell’ultimo giorno di lezioni a passare in silenzio tra le aule ormai lasciate vuote dagli studenti, recuperare le cose inevitabilmente dimenticate, salutare e ringraziare le signore delle pulizie, stare qualche minuto in silenzio per ricordare volti, voci e passioni di chi abitava quei banchi e quelle cattedre, ed è corso fuori al suono dell’ultima campanella con una sete d’aria da fare invidia. Non perché a scuola stessero male, tutt’altro, ma perché è giusto che la scuola faccia venire fame di vita, di corse, di sole, di giochi.
Quest’anno è tutto maledettamente strano. Me ne accorgo al termine di qualche lezione quando il ritmo delle disconnessioni è lento, e c’è sempre qualcuno che rimane più del dovuto sulla piattaforma di e-learning, perché ha voglia di scambiare una parola in più. Quest’anno l’ultimo gesto sarà il cursore del mouse sulla X in alto a destra e la chiusura del laptop.
Davvero un anno di scuola può finire così? Davvero la Didattica a distanza è stata “scuola”? Cosa finisce davvero domani?
Soprattutto come inizierà settembre? Perché una fine, anche antifrastica e prosaica come quella di questo giugno, la si può persino tollerare – noi adulti, e spiegarla poi ai figli – se si intravede un fine, non un termine: uno scopo. Sono serviti questi mesi di chiusura delle scuole, uniche realtà ad essere state serrate sine die? Ai nostri figli non credo, ai professionisti della scuola nemmeno, all’indotto che ruota attorno al vasto mondo dell’educazione meno ancora. Eppur tutto si tollera se si sa che ha avuto una ragione e permetterà di essere migliori.
Ho rinfoderato gli strali contro la DAD quando mi è parso di capire che al Ministero si erano resi conto che a settembre non si potesse in alcun modo ricominciare così.
Ma dopo aver appreso la follia dei divisori in plexiglass e delle mascherine ai bambini piccoli sto scendendo in giardino a dissotterrare il tomahawk, altro che coniare frasi di congedo per i canali social.
Una genìa di esaltati ha fatto disegnare ai nostri figli arcobaleni e lenzuola con scritto “Andrà tutto bene”, li ha invitati a cantare dai balconi, a suonare tutti alla stessa ora un cavolo di strumento musicale, a cantare singoli versi di canzoni poi rimontate insieme in un videopuzzle: non mi pare che sia andato tutto poi così bene, a dire il vero.
Ci siamo illusi con la retorica del “ne usciremo migliori”, ma avevano ragione i nostri vecchi, altro che: “Viagiar descanta, ma se ti parti mona, te torni mona”. Chissà cosa c’è, alla fine di questo strano viaggio, che non termina certo domani…
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