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"Avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. 

Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Non porsi limiti di tempo"

don lorenzo milani

"Vero che quando siamo alla macchina siamo al sicuro?"

Sulla tragedia di Chiareggio, sulla pioggia per i bambini, sugli elicotteri gialli e rossi


“Vero che quando siamo alla macchina siamo al sicuro?”, mi chiedeva ieri mio figlio piccolo. Stavamo scendendo dal rifugio Carate all’alpe Musella lungo il tratto che chi conosce il territorio ha battezzato “I sette sospiri”, perché si tratta di sette dossi detritici da valicare uno dopo l’altro col rifugio là in cima, a far capolino e non avvicinarsi mai. In salita, dico. In discesa si può persino ragionevolmente farli a spron battuto.

Tenevo in braccio mio figlio di quattro anni un po’ perché pioveva, picchiettando grandine fine sul cappello a scodella che gli copriva la testa, un po’ perché il ragazzo si era fatto a piedi Carate-Marinelli e ritorno, e chi conosce i sentieri sa che non è robetta.

Nella cartografia infantile la “macchina” poteva essere subito lì dietro l’angolo, e invece mancavano almeno altre due ore buone, mentre la grandine diventava goccioloni, i goccioloni si diradavano e il k-way appena estratto dallo zaino finiva appallottolato dentro.


“Alla macchina anche se piove siamo al sicuro”, come una meta, come un salvacondotto, un rifugio, appunto. Anche la notte prima aveva piovuto, fitto. Dalla cameretta si sentiva il canto della pioggia sopra le lamiere del tetto della Capanna Carate. Ci aveva impedito di starcene fuori a vedere le stelle, ma niente di più. La pioggia in montagna può essere insidiosa: sarà per questo che i bambini ne avvertono l'odore e ne hanno una paura a volte persino irragionevole.

Risalivamo verso il muraglione della diga di Campo Moro e mio figlio, trasbordato dal fianco alle spalle, girava la testa all’indietro – con relativi smadonnamenti miei che oltre allo zaino pesante, alle corde da arrampicata, ai sacchi a pelo, avevo anche lui sul groppone – cercando la provenienza di tuoni lontani e soprattutto inseguendo il rumore dell’elicottero giallo e rosso del Soccorso Alpino che si era alzato e andava verso ovest.

Chissà perché ai bambini si additano sempre come balocchi le sirene dei pompieri o delle ambulanze, o gli elicotteri, che in montagna vogliono dire tre cose: 1) trasporto materiali in quota: 2) trasporto fighetti arricchiti; 3) emergenza grave.

Ieri purtroppo era la terza.

All’imbocco dell’abitato di Chiareggio, dalla parte opposta della Valmalenco rispetto a noi ma non così lontano da noi, una frana di fango e sassi aveva appena travolto un’auto e ucciso tre dei quattro occupanti. Una coppia, con un’altra bambina di dieci anni amica di loro figlio, che probabilmente aveva voluto fare il viaggio sulla macchina dell’amico. E i suoi genitori nella loro auto, non investita dalla frana, che scendono e si precipitano a scavare a mani nude sulla colata appena scesa.

Mentre noi arrivavamo alla macchina, “al sicuro”, tre vite venivano affogate dal fango là in fondo, lungo una strada che avremo percorso decine e decine di volte, per andare in uno dei posti che più amiamo. Solo un caso, oggi, ci aveva indirizzato alle dighe e poi su in alto al cospetto del Bernina, per il “battesimo dell’alta quota” di Giorgio, che ha soli quattro anni. Altrimenti a Chiareggio ci saremmo stati anche noi, come centinaia di altre famiglie ieri e ogni giorno.

Mi viene in mente l’immagine del camion verde della catena Basko fermo a un niente dal vuoto apertosi sul ponte Morandi. A volte il confine tra la vita e la morte è in un colpo di freno o di acceleratore, inconsapevole.

La notizia della disgrazia ci ha colti mentre facevamo la doccia (due giorni in giro per rifugi la esigono come lasciapassare per reintrodursi in famiglia!), e subito il telefono ad avvertire i nonni rimasti a casa: se sentite la notizia di una famiglia morta in Valmalenco sotto una frana non siamo noi.

Non c’era né sollievo né liberazione nel dare questa notizia. C’era un senso struggente di pietà, che ancora non mi abbandona.

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