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"Avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. 

Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Non porsi limiti di tempo"

don lorenzo milani

VENT'ANNI FA

Vent’anni fa avevo una segretaria che si chiamava Silvia.

Me la ricordo come si ricordano le persone con le quali si è condiviso un dramma, perché lo sgomento unisce forse più di ogni altra cosa.

Lavoravo per una importante casa editrice di Torino ma avevamo il nostro dipartimento distaccato a Monza, in via Azzone Visconti. Avevo 26 anni e una segretaria personale. Mi beavo di questo e cercavo di essere all’altezza del ruolo. Non avevamo la televisione in ufficio e internet era “a consumo”, mi ricordo. Si centellinava la connessione per l’invio dei dati a Torino, una volta terminato il nostro lavoro editoriale, a sera.

Rientravo dalla pausa pranzo (erano quasi le tre, mi ricordo come fosse ieri: pausa pranzo lunghetta, sì, ma a Monza ci sono dei posti dove si mangia benissimo, e non di sola letteratura vive l’uomo, insomma) e la trovo scossa.

Cosa è successo, chiedo.

Mi mostra le agenzie di stampa sul computer e vedo quel che tutti ricordano.

Non c’è persona che non ricordi oggi con esatta precisione cosa stesse facendo nel primo pomeriggio dell’undici settembre di vent’anni fa.

Ci siamo guardati e abbiamo avuto netta l’impressione che fosse solo l’inizio di qualcosa di troppo più grande di noi.

“Vada a casa, Silvia”, le ho detto: “Oggi qui non abbiamo più niente da fare.”

Non so perché. Non c’era un terremoto a Monza, non c’era un pericolo imminente che motivasse la nostra voglia di essere a casa, ognuno nelle mura sicure dei propri affetti familiari.

Ho preso la moto e sono tornato verso Desio, dove abitavo e ancora abito. Ricordo strade deserte e un silenzio irreale. Immagino ora che tutti fossero incollati alla televisione. Andavo adagio – che è cosa per me insolita – e ogni tanto guardavo il cielo, come se un qualche pericolo potesse incombere anche su di me.

Ho lasciato la moto in cortile, il casco penzoloni sopra lo specchietto sinistro, e sono corso in casa. Mia mamma mi ha detto: “Hai visto?”.

“Ho visto”, le ho risposto. E siamo stati in silenzio a cercare di capire.

Ho visto in diretta, sulla televisione della cucina dei miei, il crollo della prima torre. Era un Mivar rosso, da 14 pollici. Quelli con l’antenna rotonda che dovevi orientare per prendere bene il segnale. Non so perché non avessimo acceso il televisore grande, quello in salone. Quando c’era qualche film bello papà diceva sempre: guardiamolo di là, che si vede bene. Io non volevo vederlo bene quel dramma, perché non era un film.

Ho spento prima che anche la seconda torre crollasse: avevo solo ventisei anni ma non avevo bisogno di un secondo crollo per capire che stava crollando un mondo intero.

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