PINUCCIO VA IN CITTÀ
Quando il boscaiolo Battista per gli amici “AbBattista”, arrivò, i pini più grandi e cresciuti se ne disinteressarono.
Anche quelli appena nati, che nemmeno sapevano chi fosse.
Pinuccio Pigna, un ragazzino di cinque metri, “cinque metri e mezzo quasi sei” quando voleva fare il grande con gli altri amici, stava all’ombra di papà PepPinone, per gli amici “Pep”, e di mamma GiusepPina, che si stava ravviando i capelli ramati al vento frescolino che portava giù dai monti l’odore della neve.

Battista arrivava dalla Grande Città, laggiù in pianura. Il Signor Sindaco anche quest’anno voleva che in piazza svettasse un bell’albero di Natale vero. L’aveva detto chiaro e tondo: “v-e-r-o”. Non quelli di plastica: uno delle loro montagne. Che poi sarebbe stato ripiantato nel grande parco e avrebbe continuato a vivere, tra le altalene dei bambini.
I più grandi avevano ormai perduto la loro occasione negli anni passati. I piccoli ne sentivano parlare, di quell’incarico di prestigio, ma solo in pochi quell’anno erano davvero in forma.
Pinuccio era in formissima.
E Battista andò da lui a colpo sicuro, che l’aveva visto crescere e lo conosceva bene.
“A colpo” è sbagliato, perché non un colpo d’ascia avrebbe fatto del male al suo tronco: l’avrebbe preso delicatamente dalle radici, avvolto in una specie di grossa coperta e trasportato in città. Sollevato con la ruspa. No: con l’elicottero! Ma va’ là: lo portano col camion. Ogni anno era una leggenda!
“Beata te”, dicevano le amiche a GiusepPina: “Non capita a tutti di avere un figlio che diventa famoso.” Gli amici di PepPinone inchinavano la chioma a dargli qualche pacca sulla schiena e dirgli “eh”, come si fa tra gli uomini di poche parole.
Pinuccio in parte capiva, in parte no. Quando si sentì abbracciare forte dalle cinghie della ruspa e incominciò a sentire freddo ai piedi, la resina gocciolò come se fossero lacrime.
“Non piangere bimbo mio: vai a fare una cosa importante”, gli diceva la mamma.
“Eh”, gli diceva il papà, mentre con una radice stringeva forte i piedi del figlio.
“Ma quanto sono profonde le radici di questo qua?”, dicevano i boscaioli mentre la ruspa sbuffò una nuvola nera puzzolente, e Pinuccio si sentì finalmente dondolare in aria.
Dal bosco alla città il viaggio era lungo e tortuoso. La strada scendeva tutta a curve, come un serpentone, e anche se il camion andava adagio, che lungo com’era rischiava di incastrarsi a ogni tornante, a Pinuccio venne subito un fortissimo mal di pancia. Gli avevano messo delle cinture di sicurezza, per non farlo rotolare giù dal camion, e gli sembrava che gli stringessero troppo. E poi la discesa gli faceva tappare le orecchie, e doveva deglutire per stapparle, mandando giù ogni volta un groppo grosso in gola, come una specie di magone. Gli mancavano la mamma e il papà, e aveva paura. Ma non della strada, o del camion.
Il vaso in cui lo misero nella piazza della Città era bello grande, e poteva sgranchirsi le radici: non troppo, ma poteva. Al posto delle pigne gli avevano appeso un sacco di palline colorate e i fili delle lucine che si illuminavano adesso sì, adesso no, adesso sì, adesso no, adesso sì, gli facevano il solletico come i suoi amici scoiattoli quando gli si arrampicavano sopra a fare scorta di pinoli.
Il freddo aveva congelato la resina e a vederlo da fuori tutti lo pensavano felice: non piangeva.
Gli operai del Comune avevano dovuto però chiamare già due volte il Boscaiolo Battista per raddrizzarlo: “Gli pende la chioma da quella parte là”, gli avevano detto. Come se Pinuccio non riuscisse a stare bello dritto.
Alla terza volta che si voleva inchinare verso di lui papà PepPinone gli aveva fatto cenno di no, di smetterla di spostarsi, di stare su dritto e fare bella figura, che tanto lui lo vedeva, nascosto tra gli altri pini del giardino delle altalene.
PepPinone ci aveva messo un po’ a scendere dal Bosco alla Città: doveva muoversi quando era buio, e la radice con la quale aveva cercato di trattenere Pinuccio gli faceva ancora male. GiusepPina gliel’aveva fasciata come era riuscita e gli aveva detto: “Vai, vai a fargli compagnia, al nostro piccolino.”
Il parco-giochi con gli scivoli e le altalene era vuoto: i bambini erano tutti attorno al Grande Albero illuminato al centro della Piazza. E lo ammiravano a testa in su, a bocca aperta e occhi incantati. Tenuti per mano dalle mamme, qualcuno in spalla al papà, tenevano lo sguardo fisso su Pinuccio, e qualcuno persino gli strizzava l’occhio. Avranno avuto sì e no la sua stessa età.
C’era un bambino, poi, che gli stava particolarmente simpatico: aveva i capelli neri, a scodella, con una frangia tagliata dritta sopra gli occhioni neri e buoni.
Veniva spesso a trovarlo, e gli raccontava delle cose. Quando la musica della giostra della piazza non era assordante e le chiacchiere della gente non sovrastava la voce del bambino, Pinuccio riusciva a cogliere qualche mezza parola: parlava di statuine, di pecorelle, di un presepe che stava costruendo, e di una stella cometa.
Si chiamava Adriano: Pinuccio l’aveva imparato perché il papà l’aveva chiamato per nome quando lui gli aveva chiesto di essere preso in spalle per vedere più da vicino l’albero, e gli aveva puntato in viso una specie di piletta portatile, che teneva in tasca: “Ecco qui la ’tella cometa”, gli aveva detto sorridendo
E anche Pinuccio aveva ricambiato, agitando i rami in uno sbrilluccichìo, sotto lo sguardo fiero e silenzioso del suo papà PepPinone.
E finalmente aveva sorriso.
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(Il racconto Pinuccio va in città è stato pubblicato nella prima versione il 19 dicembre 2020 sul sito del Comune di Lecco https://www.comune.lecco.it/index.php/comunicazione-partecipazione-3/calendario-del-natale-2020/16042-stefano-motta-pinuccio-va-in-citta)