L'8 MARZO DELLE LUCIE DI KIEV
Chi pensava che I Promessi Sposi avessero già detto tutto durante i lunghissimi mesi del Covid, peste del nostro secolo, è costretto a prendere atto che la grandezza di un capolavoro sta nella sua tragica capacità profetica di indovinare il futuro. O che la piccolezza dell’uomo sta nella sua disarmante incapacità di imparare dal passato.
Le immagini di questi giorni non possono non richiamare alla memoria la sconvolgente invasione dei Lanzichenecchi, e i mezzi cingolati che passano e calpestano hanno lo stesso ritmo inesorabile e violento degli squadroni che attraversarono il ponte di Lecco:
Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadron volante de' veneziani finì d'allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero. Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d'autunno, si vede dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s'erano riparati.
Siamo al capitolo XXX del romanzo, e la gente è costretta a fuggire dalle proprie case, per mettere in salvo almeno la vita, dando per perse ormai le proprie cose più care.
C’è chi è dovuto fuggire già molto prima, per le brame di un prepotente convinto di poter spadroneggiare su ogni cosa, prendendo per sé quel che vuole, discettando al tavolo coi potenti – il podestà, l’Azzeccagarbugli, il cugino Attilio: tutti maschi, naturalmente – e braccando la preda innocente, che come il romanzo e purtroppo la storia vuole, è donna.

In questo 8 marzo 2022 guardo i telegiornali, ascolto le testimonianze delle giovani spose in fuga dalla terra d’Ucraina e non posso non rivedere in loro la mestizia della “mia” Lucia, risentire nel loro sconforto lo stesso strazio di quell’addio che Manzoni rese memorabile, e che tutti conoscono. Il mio omaggio a queste donne coraggiose nella loro dignitosissima indignazione passa attraverso le pagine del mio amato Manzoni. Attraverso una versione meno conosciuta, per certi versi più dura, e forse più vera: è l’Addio, monti così come Manzoni l’aveva scritto nella prima minuta del romanzo, quella che la vulgata chiama Fermo e Lucia. Siamo al capitolo ottavo del primo tomo, e Lucia dice, tra sé, così:
Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze; casa nella quale sedendo con un pensiero s'imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna. Addio chiesa dove nella prima puerizia si stette in silenzio e con adulta gravità, dove si cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire, Chiesa, dove era preparato un rito, dove l'approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all'ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della santità. Addio! Il serpente nel suo viaggio torto e insidioso, si posta talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l'uomo il quale ad ogni passo incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile usurpatore, e parte. E l'uomo pure caccia talvolta l'uomo sulla terra come se gli fosse destinato per preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: ma i passi affannosi del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione.
C’è il rimpianto della promessa sposa per un futuro appena intravisto, il ricordo dei rossori del cuore della fidanzata, il sogno di una cerimonia tranquilla e solenne. E, a differenza della visione per certi versi più serena dei Promessi Sposi, nutrita di fiducia provvidenziale, c’è qui la rabbia, il desiderio comprensibilissimo di riscatto, di vendetta. Nella rassegnazione del debole, che di fronte all’usurpatore non può che fuggire, si legge la fierezza orgogliosa di chi sa che un giorno a quel prepotente verrà chiesta ragione di ogni passo di queste vittime, di ogni tremito nel freddo delle notti in fuga, di ogni lacrima dei bimbi offesi, di ogni palpito del cuore di queste donne forti.