Inizia oggi, con partenza da Monreale e arrivo a Palermo, un Giro d'Italia stranissimo. Per anni, durante gli studi universitari (non tanti anni: i quattro giusti) il Pordoi, il Sella, il Mortirolo hanno fatto compagnia ai manuali di filologia e biblioteconomia, e ai tomi di storia medievale, e Gibo Simoni scattava sullo Zoncolan mentre Pico della Mirandola discettava di libero arbitrio, e prima di lui Pavel Tonkov cedeva sulla salita di Pampeago mentre Galileo abiurava davanti al Sant'Uffizio: per anni il leopardiano "sudate carte" ha significato per me convivere sul divano con i libri e il telecomando. Perché c'era il Giro. E poi alle 17.30, finita la tappa (e lo studio), inforcavo la mia bici di alluminio e uscivo, su e giù da Canonica Lambro, o fino in Brianza, e il Lissolo era il mio Mortirolo.Si era in primavera, e le giornate erano lunghe, col sole che incominciava a rifiutarsi di tramontare, e avevi tempo per tornare tardi, al sicuro. Il 2020 porta con sé anche questo stravolgimento, e il Giro diventa una corsa tra le foglie morte. Scriveva Indro Montanelli che "il Giro d‘Italia ha uno strano potere, quello di trasformare in domenica ogni giorno della settimana" e davvero per molti è così. Quando ho iniziato a lavorare ho potuto gustarmi in diretta solo le tappe del sabato e della domenica: le altre le sentivo in auto alla radio, tornando a casa e fremendo sul sedile. Quest'anno sarà lo stesso, con in aggiunta il timore di un nuovo lockdown, e di dover tornare a pedalare in casa, in soffitta, tra smartworking e homecycling, un occhio al pc uno al televisore.

Il ciclismo è sport di grandi passioni ed enormi fatiche, quasi epico nel racconto di molte imprese dei suoi eroi, consunti e mai domi. È sport democratico, che non chiede biglietto per assistervi. È sport maschio, se maschio vuol dire non rotolarsi tarantolati nell'erba per un calcetto alla caviglia invocando rigori, espulsioni, massaggiatori e defribillatori, ma risalire in sella dopo una caduta e pedalare sino al traguardo anche se gambe e braccia sono ferite. Il ciclismo è sport di equilibrio, di un equilibrio fragile, possibile solo in movimento, e ci insegna che così è la nostra stessa vita, e "spesso la sola cosa garantita è questa fatica regolare, dello stesso lavoro ogni giorno da fare, della stessa vita da ricominciare, degli stessi difetti da correggere, delle stesse sciocchezze da non fare.". Così scriveva Madeleine Delbrêl nel suo "La spiritualità della bicicletta", una mistica francese, una cristiana di quelle vere, con le maniche rimboccate e i calli più sulle mani che sulle ginocchia, di chi lavorava davvero per gli ultimi. Se è vero quel che scriveva Montanelli, ogni giorno allora è domenica: ogni giorno è il Giorno del Signore, anche e soprattutto quelli feriali, quelli del lavoro e della fatica. Se è vero quel che si dice del Tour de France del '48, in cui la vittoria di Bartali salvò un'Italia nervosa dalla guerra civile dopo l'attentato a Togliatti, allora il Giro d'Italia autunnale del 2020 viene come una benedizione in questa Italia spaesata da un virus infido. Vorrei non doverlo correre di nuovo in mansarda, con la bici da spinning e mio figlio piccolo accucciato sul manubrio. Vorrei potermi godere gli spazi aperti di una nazione che ritorna a respirare a pieni polmoni, e godere del vento sulla faccia, e non aver paura di prendere freddo e sudare che se no poi dopo ti viene il raffreddore. O forse sì: sudare e prendere un bel raffreddore, di quelli che prendevo da ragazzo quando tornavo dal Ghisallo senza mantellina, al massimo con il giornale infilato tra la maglietta e la pancia (che ovviamente a quell'età non avevo), e ovviamente mica tiravo i freni. Allora era davvero solo un raffreddore, e mi manca questa incosciente sicurezza.
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