Quando il mondo era quello che adagio adagio stiamo tentando di riconquistarci, magari non identico ma migliore, mi succedeva spesso di girare l’Italia in lungo e in largo per incontrare gli studenti che avevano letto qualche mio libro. Aule magne gremite e occhi spalancati, e io avevo i brividi perché non sapevo se davvero meritassi l’ammirazione che leggevo nelle mani di tutti loro che facevano la processione per farsi autografare il libro, che era mio ma era loro. Li vedevo con le orecchie alle pagine, con i disegni che avevano fatto sul frontespizio, gli appunti, le sottolineature, vita su vita, la loro aggiunta alla mia, che avevo un poco riversato nelle mie pagine.
C’erano delle mete preferite, e stavano quasi tutte nell’Italia centrale e meridionale: Roma, girata in tutti i suoi molti quartieri, Ostia, Latina, Bari, Napoli, tante volte.
Ieri sono ritornato in una delle città che più amo, Napoli. Solo in video, purtroppo. Niente puntata a scegliere due o tre cravatte alla Riviera di Chiaia, che Marinella ha una boutique anche a Milano ma Napoli è Napoli. Niente cena a Castel dell’Ovo, niente salita in funicolare al Vomero, niente gironzolamento nel Malpertugio e puntata al sarcofago di Filippo Minutolo al Duomo, sulle tracce del decameroniano Andreuccio da Perugia. La mia Napoli “fissa” è questa, ogni volta.
Ho fatto una lunga chiacchierata con un’ottantina di studenti e con i loro insegnanti, seduti attorno al tavolo virtuale di uno schermo, parlando dei Promessi Sposi, romanzo lecchese, milanese e lombardo per eccezione (quanto poi sia limitante questa definizione è argomento che qui non tratto), storia che si svolge all’ombra del Resegone raccontata a chi, dalle finestre di casa sua, vede il profilo inconfondibile del Vesuvio.
E mi sono reso conto di una cosa che sapevo, e ammiravo, e invidiavo, quando ancora si poteva prendere un aereo e volare a raccontare di persona i propri mondi, e l’ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato: c’è un modo di fare scuola al sud dal quale noi tutti dovremmo imparare. Un amore per la letteratura, che vuole ritmi lenti e pagine lette ad alta voce, e concetti alti, che noi settentrionali persi dietro l’efficientismo digitale abbiamo smarrito.
Le domande di quei ragazzi sono state spiazzanti nella loro profondità spontanea, e più volte ho dovuto attingere a conoscenze e concetti più alti, che non avevo preparato sul tavolo come ingredienti per quella conversazione. E li capivano.
Io non lo so se una certa distanza aiuta a vincere il provincialismo, se dal Vesuvio si coglie di più la grandezza dei settentrionalissimi Promessi Sposi o se all’ombra del Duomo apprezziamo di più Verga di quanto non facciano gli studenti che vivono alle pendici dell’Etna: può anche darsi questo.
So però che la differenza non la fanno i banchi a rotelle o i tablet: la differenza la fa un paradigma di scuola orgogliosamente fiera di sapersi tutti nipoti di Dante, di Boccaccio, di Manzoni, di Pirandello, e non cugini acquisiti di Bill Gates e Steve Jobs. E gli insegnanti. La differenza la fanno gli insegnanti.
In un mondo che cerca di proteggersi da qualsiasi contagio, mi rendo conto che un insegnante è una specie di untore buono, un portatore sano di virus: sono i libri che ha letto, i poeti che ha imparato a memoria e recita ormai come fossero parole sue, le vite che ha vissuto, i musei che ha visitato, i mondi che ha sognato e ancora sogna. Non serve che imponga, che programmi, che verifichi: basta che contagi, con gioia, azzardo e imprevedibilità. E le rotelle che si metteranno in moto saranno quelle della fantasia dei suoi studenti, non quelle dei banchi sul pavimento.
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