Tra palanytsia e cognac: la protesta alla guerra contro l'Ucraina in Russia
Ieri sera al “Modì” – il modo in cui tutti quelli che hanno studiato, hanno lavorato al liceo artistico “Modigliani” di Giussano lo chiamano, con dolcezza e affetto – ho partecipato a una bella conferenza dal titolo “Quali risorse per una pace possibile?”.
Senza nulla togliere alla grandezza di quel Paese, è una di quelle conferenze a cui nessuno avrebbe voluto andare perché ci si rende conto tutti che vi si partecipa a causa di una guerra.
Ho raccolto molti stimoli dalle parole di Anna Baydatska, docente di Lingua e Letteratura russa all’Università Cattolica di Brescia, e di Adriano Dell’Asta, docente all’Università Cattolica di Milano. Si discuteva di storia e identità della cultura ucraina, di orgoglio e dignità, di resistenza e di pace. Di una resistenza e di una dignità originarie, antropologiche, non “ucraine”.
Ho sorriso, con amarezza, lo confesso. Si raccontava delle primissime avvisaglie di infiltrazione russa in Ucraina, quando schiere di maschi adulti single prendevano in affitto appartamenti a Kyiv (lo scrivo così, secondo la grafia ucraina, e non “Kiev”, alla russa, perché è anche da qui che passa la vicinanza a un popolo oppresso).
Uomini russi, mischiati alla popolazione ucraina, che avrebbero poi ospitato altri maschi russi a casa loro, infiltrando piccoli nuclei di militari e sabotatori – che di questo si trattava – nascosti e dormienti in attesa che iniziasse la cosiddetta “Operazione Speciale”. Come distingui un russo da un ucraino? Come distingui un meridionale da un bergamasco? Un ebreo da un ariano? Tra le altre cose, dalla pronuncia.
Ucraino e russo sono lingue appartenenti al comune ceppo slavo, ma ci sono alcuni suoni che sono tipici, alcune parole impronunciabili per chi non è stato accattaccato sin dalla nascita al seno di quella lingua madre.
Così è per “palanytsia”, “focaccia”, che gli ucraini pronunciano con suoni palatalizzati che nessun russo che pure parli ucraino riesce a replicare. E far dire “palanytsia” a questi inquilini misteriosi era diventato il modo per scoprirne la vera origine, e le reali intenzioni.
Ho sorriso perché mi sono ricordato dell’immortale scena della “cadrega”, quando Giacomo e Giovanni, rustici meneghini, mettono alla prova l’accento di un meridionalissimo Aldo che biascica parole in dialetto milanese per non farsi scoprire. Chi non la conoscesse (ma chi non la conosce?) la trova qui: https://www.youtube.com/watch?v=m9uRj9fV-i4.
L’Italia, la nostra storia e il nostro Risorgimento mi sono tornati in mente quando si raccontava delle forme di protesta silenziosa e nascosta alla guerra che l’opinione pubblica russa non rinuncia a esprimere, nonostante sia vietato per legge.
È di sabato 4 marzo la promulgazione della legge che a Mosca infligge fino a 15 anni di carcere ai giornalisti e ai blogger che scrivono le parole "guerra" e "invasione".
Come fare, allora, a dire “No alla guerra” in un paese che nega che quella in corso lo sia?
Si dice нет войне, si legge “no alla guerra”, ma a Mosca non si può scrivere sui cartelloni, sui social, men che meno sui muri.
Ma si deve dirlo. E allora si trova il modo. нет войне, tre lettere il “niet” e cinque lettere la parola che significa “guerra”: 3+5. Questo postano i giovani russi sui loro social: “3+5”, e tutti possono capire senza che nessuno li possa incriminare.
E altri escamotage, come la foto di due bottigliette di cognac, l’una meno pregiata, da tre stelle, e l’altra da cinque, messe accanto: *** *****, tre asterischi più cinque asterischi di due parole che non si possono dire per dire no a una guerra che non si dovrebbe fare.
Era la seconda metà del nostro Ottocento quando sui muri di Milano e Venezia i patrioti italiani scrivevano “VIVA VERDI”, inneggiando al grande compositore – se qualche militare austriaco chiedeva – e celebrando Vittorio Emanuele Re D’Italia per tutti quelli che capivano.
Perché la pace si ingegna, e non sa tacere.
E purtroppo la storia, invece che insegnare, si ripete. E in una parte del mondo, in Europa, proprio svoltato l’angolo, c’è ancora bisogno di scrivere sui muri slogan clandestini. E questo cognac fa meno ridere della “catrèk”.
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